“Fake News” e “Analfabetismo funzionale”: ecco come la Rete ci inganna

Ogni giorno sentiamo parlare di “Fake News”: in TV, sul Web, al bar...

di Giovanni Abbatangelo

Ogni giorno sentiamo parlare di “Fake News”. Ne parlano proprio tutti: politici, opinionisti della TV, scienziati, gente comune al bar… Ma quando utilizziamo questo termine inglese, sappiamo esattamente a cosa ci stiamo riferendo? La traduzione letterale dell’espressione è “notizie false”. La locuzione, sicuramente corretta, è un po’ riduttiva, in quanto l’universo di significati a cui può riferirsi va oltre le semplici “bufale”, abbracciando anche le sviste, la satira, la parodia e i fatti manipolati con lo scopo deliberato di arrecare un danno a qualcuno o a qualcosa.

Ogni giorno sentiamo parlare di “Fake News”: in TV, sul Web, al bar…

Oggi, purtroppo, stiamo vivendo una gravissima emergenza sociale. La disinformazione si trova dappertutto, complici un livello di analfabetismo funzionale che tende a crescere anno dopo anno, e la pervasività dei social network che ci inondato di svariati gigabyte di informazioni ogni giorno. (Gli appassionati di sociologia possono approfondire questo fenomeno, denominato “Information overload”, a questo link). L’utilizzo del termine “fake news” è quindi piuttosto riduttivo, in quanto sarebbe più corretto parlare di “information disorder” per indicare quei complessi fenomeni di “inquinamento delle informazioni” a causa dei quali, per l’utente medio, è diventato pressoché impossibile distinguere ciò che è vero da ciò che è falso.

Si parlava, poc’anzi, di analfabetismo funzionale. Per definizione, un “analfabeta funzionale” è una persona che, pur essendo in grado di leggere, scrivere e far di conto, non sa applicare tali competenze alla realtà e utilizzarle per estrarre le informazioni più rilevanti dal testo che sta leggendo o dal contenuto che sta fruendo. In Italia questo fenomeno sta raggiungendo dei picchi mai visti prima, tanto che, secondo un recente rapporto dell’ISFOL, ben 1 italiano su 2, il 50% della popolazione, non padroneggia gli strumenti per interpretare e decodificare informazioni e notizie. Non ci vuole un genio per capire quali possano essere i risultati derivanti dal fatto che, tutte queste persone, ogni giorno lavorano, scrivono e condividono post sui social network, e vanno anche a votare, senza avere una piena coscienza di ciò che fanno. Va da sé che diventa molto più semplice per i malintenzionati compiere truffe di vario tipo, e fare in modo che le notizie false si diffondano e attecchiscano.

In Italia, 1 persona su 2 non è in grado di comprendere il senso di ciò che sta leggendo

Il fenomeno è inoltre amplificato e potenziato dall’esistenza di quelle che i sociologi definiscono echo chambers”. Per meglio comprendere il concetto, facciamo un esempio: le persone che si iscrivono a un gruppo Facebook in cui si parla di uno specifico argomento, o quelle che seguono una trasmissione televisiva che “tifa” per l’una o per l’altra fazione politica, sono accomunate dal fatto di pensarla più o meno in maniera simile. Le echo chamber, infatti, essendo popolate soltanto da persone con un’opinione molto simile tra loro, amplificano in chi le segue l’effetto «tutti la pensano come me», lasciando pochissimo spazio per chi si fa portatore di un’opinione differente. I partecipanti alla discussione, quindi, si comportano quasi come gli affiliati ad una setta religiosa: chi non segue le regole prestabilite viene deriso ed emarginato, e l’unico modo per farsi accettare dal gruppo è accettare quella che gli antichi greci definivano doxa”, l’opinione immutabile e inattaccabile condivisa dalla maggioranza.

Detto così, sembra quasi che esista una parte della popolazione che si comporta come le pecore in un gregge, segue l’idea della massa che si fa manforte a vicenda, e un’altra parte in grado di mantenere un occhio critico sul mondo e sulla società. Ma non è così. Oggi siamo tutti, chi più chi meno, vittime di questo fenomeno. Pensiamo al nostro cellulare: esso stesso è un’immensa echo chamber. Grazie ai potenti algoritmi elaborati dalle grosse multinazionali dell’intrattenimento online, i device che ci portiamo addosso 24 ore su 24 conoscono tutti i nostri gusti, le nostre preferenze, le nostre ricerche, i nostri amici. Facebook, Instagram e Whatsapp, per citare i social più utilizzati, sanno tutto di noi, e faranno di tutto per farci restare quanto più tempo possibile all’interno della loro app per inondarci di contenuti e pubblicità che, secondo il “grande fratello digitale”, corrispondono esattamente a quello che ci piace. Anche se seguiamo centinaia di pagine e abbiamo decine di amici, il social saprà sempre quali sono i nostri amici più stretti, e ci mostrerà sempre i post che gli permetteranno di monetizzare di più vendendo i nostri dati alle agenzie pubblicitarie.

Una tendenza comune alla maggioranza dei fruitori di contenuti, ma più generalmente a tutti gli esseri umani, è quella di fare o credere qualcosa senza pensarci troppo su, ma soltanto perché tante altre persone credono o fanno la stessa cosa. È lo spirito gregario intrinsecamente presente negli uomini a spingerci a comportarci in questa maniera, l’istinto del gregge per colpa del quale tendiamo a seguire l’opinione della massa. I sociologi parlano di “effetto carrozzone” per indicare questa tendenza a “stare tutti dalla stessa parte”. Il lettore consapevole, ma, generalizzando, l’uomo dotato di un vero spirito critico, deve sempre essere in grado di valutare in prima persona ciò che gli viene raccontato, e avere la forza e il coraggio di “scendere dal carrozzone” e portare avanti la propria idea, se la crede corretta, mettendosi contro tutto e tutti. È questa una capacità molto difficile da affinare, poiché ognuno di noi tende a soffrire del cosiddetto “bias di conferma”, una distorsione della valutazione che ci spinge a notare soltanto i contenuti e gli argomenti che confermano le nostre convinzioni pregresse e ad ignorare quelli che le contraddicono. Ma una volta affinata la capacità di “ascoltare tutte le campane”, saremo in grado di comprendere anche il fatto che non è sempre corretto ciò che la maggioranza pensa che lo sia.

Le persone tendono a considerare “vera” un’opinione se la maggior parte della gente la crede reale

Ma torniamo al fenomeno delle “fake news”. Nel 21° secolo, anche il modo di fare informazione si è radicalmente trasformato. Fino a qualche anno fa, le notizie arrivavano prevalentemente “dall’alto”, poiché giornali, radio e televisioni, molto spesso su indicazione dei governi, selezionavano le notizie da dare in pasto al pubblico. Vivevamo dunque in un mondo in cui c’erano poche fonti emittenti, e milioni di occhi e orecchie destinatari del messaggio. Oggi, invece, sempre più frequentemente accade il contrario: in rete, e più specificatamente sui social, ci ritroviamo a leggere fatti che solo successivamente verranno riportate al TG e sui giornali. Ciò accade perché ognuno di noi, se è in grado di sfruttare i mezzi che il Web ci mette a disposizione, può trasformarsi in un “creatore di contenuti”, e pubblicare informazioni che potrebbero, potenzialmente, raggiungere un bacino di milioni di persone e godere di una visibilità immensa, senza che importi davvero se la sua notizia sia reale o meno. In uno scenario di questo tipo, i creatori di “fake news” hanno vita facile. In mancanza di un rigoroso controllo delle fonti, e sfruttando alcuni “trucchi del mestiere” come l’utilizzo di profili falsi o la creazione di articoli dai titoli sensazionalistici, le bufale possono diventare virali fino al punto da spingere migliaia di persone a credere a ciò che gli viene propinato e, peggio ancora, ad essere riprese da giornalisti e conduttori che “abboccano” all’inganno come un pesce all’amo.

Titoli sensazionalistici e immagini appariscenti hanno lo scopo di spingere il lettore a cliccare sul link

A questo punto, la domanda che è lecito porsi è: come facciamo a riconoscere le fake news e a sopravvivere a questo ingestibile “disordine informativo”?

Scopriamolo insieme nel prossimo articolo! Clicca QUI

 

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