I “femminielli” di Napoli. Dalla Magna Grecia ad oggi, simboli di tolleranza e accoglienza

La Tarantina di fronte al murales sfregiato

di Giovanni Abbatangelo

“Fà ‘a vita ‘e notte sott’a nu lampione / e quando arriva mezzanotte / scende e va a faticà’,
ma che peccato ca è nu poco ricchione / ha cominciato col vestito della sorella / pe pazzià’.
E vo’ essere na signora / crede ancora all’amore / sogna la vita coniugale / ma per strada poi sta male / perché si girano a guardare”
 

Così canta Pino Daniele, tra i più grandi narratori della cultura napoletana. “Chillo è nu buono guaglione” è un brano che racchiude in sé qualcosa che va oltre la storia di un travestito come tanti altri, addentrandosi in profondità nell’universo dei “femminielli” napoletani.

Si tratta di una sottocultura affascinante che, come molti fenomeni tipicamente campani, affonda le sue radici nella cultura magno-greca che ha dato origine alla civiltà partenopea. L’Italia del sud, e Napoli nello specifico, custodisce da millenni una straordinaria apertura verso il “terzo sesso”, considerato qualcosa di insito nella natura umana, una delle tante sfaccettature che danno colore al mondo. Il legame con la cultura greca è molto forte: in età classica, gli ermafroditi erano considerati l’apice della meraviglia umana, poiché condensavano in un unico corpo la bellezza femminile, rappresentata dalla dea Afrodite, e la forza maschile, rappresentata dal dio Ares. Questo status quasi “magico”, a Napoli, si è mantenuto nei secoli, e si è evoluto assieme al mutamento dei culti religiosi. Pensiamo, ad esempio, alla “Juta dei femminielli”, il pellegrinaggio che si tiene ogni anno il giorno della Candelora, in cui centinaia di femminielli raggiungono il Santuario di Montevergine, in provincia di Avellino, rendendo omaggio alla Madonna Nera, la “Schiavona”, loro protettrice.

I femminielli, gli ermafroditi, gli omosessuali, dunque, sono sempre stati rispettati e tollerati, continuando ad affascinare generazioni di napoletani e non. Una categoria umana che è stata rappresentata anche dai più influenti interpreti della cultura italiana e mondiale: oltre al già citato Pino Daniele, pensiamo ad Andy Warhol, che nel 1975 allestì la mostra “Ladies and gentlemen” incentrata sulle figure dei transessuali incontrati nei bassifondi della città di New York e sui ritratti dei femminielli dei vicoli partenopei. Ed ancora, più di recente, il regista Ferzan Ozpetek, nel film campione di incassi “Napoli velata”, ha portato sul grande schermo la “figliata”, un rito di fecondità che si è svolto per secoli alle pendici del Vesuvio. La messa in scena deriva dal culto della Grande Madre Cibele, praticato nella Magna Grecia, al quale erano ammessi soltanto gli evirati, e che consiste in una rappresentazione pubblica in cui un femminiello simula i dolori del parto, mentre i presenti eseguono il “taluorno” (o “latuorno” in alcune aree di Basilicata, Puglia e Calabria), una cantilena rituale che rimanda alle urla delle donne durante le veglie funebri. Il tutto si conclude con la “nascita” di una statuetta rappresentante Priapo, dio della fecondità, con il suo inconfondibile fallo sproporzionato rispetto al corpo.

Un femminiello portato in mostra da Andy Warhol nell’esposizione “Ladies and Gentlemen”, 1975

Dunque, la figura del femminiello è da sempre una costante della cultura campana, e i napoletani non hanno mai avuto paura di cogliere e mostrare questa realtà con quel pizzico di folklore che li caratterizza. Il femminiello, a Napoli, racchiude in sé tante identità sessuali, dal transgender all’omosessuale, passando per il transessuale, tutte quelle che oggi si identificano nell’acronimo LGBTQ. L’aspetto autoironico è marcato dal trucco pesante grazie al quale i femminielli esprimono la loro particolarità, il modo colorito e appariscente di vestirsi, e le movenze teatrali con cui fanno quotidianamente una caricatura di sé stessi. I femminielli sono amati e rispettati, sono dei portatori di gioia, e non si offendono se vengono presi in giro affettuosamente da chi li conosce, poiché grazie alla “cazzimma” che li contraddistingue sanno rispondere a tono, strappando sempre un sorriso.

Ci troviamo di fronte a qualcosa di quasi alieno alla società occidentale, ancora oggi impregnata di una cultura bigotta e chiusa verso il diverso. Nelle terre che appartennero alla Magna Grecia si è tramandata un’apertura mentale che ha regalato ai femminielli un posto ben definito nella società. Un altro esempio calzante è quello della “tombola vajassa”, tradizione in cui è possibile imbattersi nei “bassi” dei quartieri popolari di Napoli. A queste tombolate partecipano esclusivamente donne e femminielli, mentre gli uomini restano alla porta. Il femminiello, in un’atmosfera beffarda e irriverente, estrae i numeri e li commenta riportandone il significato codificato nella “smorfia”.

Ma nonostante questi tentativi di offrire un ruolo sociale a una parte della realtà omo-transessuale, codificando la loro figura in delle “maschere” socialmente riconosciute, non si può considerare il lato oscuro del fenomeno. In molti casi, per queste persone, l’unica via per la sopravvivenza è stata, ed è ancora, la prostituzione, di frequente gestita dalla camorra e da approfittatori senza scrupoli, individui che non hanno alcuna remora a mostrare il proprio disprezzo verso chi ha fatto una scelta di vita estranea ai classici ruoli maschili e femminili.

Le storie di vita che si possono raccogliere tra i vicoli sono innumerevoli. Alcune culminano con violenza ed emarginazione, altre sono fortunatamente più liete. Carmelo Cosma, 83 anni, conosciuto da tutti come “la Tarantina”, è la prima transgender pugliese approdata a Napoli quando aveva soltanto 12 anni, ed oggi è l’ultimo tra i femminielli napoletani. Ripudiata da bambina dalla famiglia d’origine, è stata accolta dal popolo partenopeo ed è diventata negli anni il simbolo della cultura dei femminielli contemporanea, un vero e proprio simbolo della città.

La Tarantina di fronte al murales sfregiato

La città di Napoli ha voluto omaggiare la figura della Tarantina attraverso la realizzazione, a febbraio 2019, di un murales che la ritrae nei vicoli dei Quartieri Spagnoli, sulla parete esterna del Palazzetto Urban di proprietà del Comune di Napoli. L’opera, realizzata dallo street artist Vittorio Valiante, e patrocinata dal Tavolo interassessorile per la Creatività urbana del Comune di Napoli, è purtroppo balzata alle cronache per essere stata protagonista di uno sfregio di natura probabilmente omofoba. Il volto della Tarantina è stato cancellato e, al suo fianco, è comparsa la scritta “Non è Napoli”. In risposta all’atto vandalico cittadini e istituzioni si sono radunati per rimarcare a gran voce il fatto che la maggioranza dei napoletani non dimentica la propria anima tollerante e accogliente, e condanna fermamente un gesto in cui la città, anche alla luce della sua storia, non può riconoscersi.

Durante l’occasione, abbiamo raccolto una preziosa testimonianza direttamente dalla Tarantina. “Sono a Napoli dal 1947, quando avevo 12 anni” – spiega l’ultimo dei “femminielli” – “ho visto rinascere questa città, e sono più napoletana dei napoletani. Io amo Napoli, è tutta la mia vita, è la mia famiglia che non ho avuto durante l’infanzia. Io vivevo per strada, e Napoli mi ha dato calore, mi ha accolta da bambina, mi ha dato tutto. Io sento di essere Napoli, e vorrei che questa gente si svegliasse dai propri sogni. La vita è di chi ce l’ha e deve godersela, senza odio, disprezzo e razzismo. Siamo tutti uguali”.

Le storie dei femminielli napoletani continuano a vivere non solo nella viva voce della Tarantina, ma anche nei racconti portati in scena da Fortunato Calvino, autore e regista partenopeo, che ha dedicato alla Tarantina un docu-film e uno spettacolo teatrale in cui la trans interpreta sé stessa e mostra al grande pubblico la sua forza e i sui ricordi fatti di gioia e sofferenze. “Sono anni che mi dedico alla Tarantina, alla sua storia” – racconta Fortunato Calvino a 300Magazine – “Abbiamo fatto un film insieme e l’ho portata anche in scena. Io credo che la sua testimonianza sia importante, perché racconta una parte di questa città che lentamente va scomparendo. Dopo questo atto vile è necessario ricominciare dai bambini, insegnare loro la cultura e la bellezza. Solo così possiamo salvarli da questo degrado culturale che esiste in alcuni quartieri dei Napoli. Questo è un atto compiuto da persone che non conoscono quale tipo di cultura e storia sia rappresentata dalla Tarantina, una cultura che merita rispetto”.

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