In ricordo di Aldo Masullo, Maestro ineguagliabile e amatissimo

Forse il modo migliore, per sottolineare e ricordare – adesso che ci ha lasciati definitivamente, portandosi via con lui l’infinita curiosità che lo contraddistingueva, l’insaziabile curiositas che i suoi occhi e il suo sorriso ‘sensatamente’ custodivano e trasmettevano – la qualità dell’insegnamento di Aldo Masullo, la sua instancabile passione per la filosofia, è racchiusa in queste parole di un poeta, René Char: «Notre héritage n’est précedé d’aucun testament (La nostra eredità non è preceduta da nessun testamento.)»
Chi, come me, e insieme a tanti altri, ha scelto di seguire e proseguire la sua scia di pensiero, sa quanto vera sia la frase di Char.
Vera perché l’apertura del singolare tracciato di pensiero inaugurato da Aldo Masullo, – e singolare non soltanto perché unico, ma piuttosto perché capace di potere essere assunto singolarmente da ognuno di quelli che hanno scelto di seguirlo –, ha dato vita, come i veri Maestri sanno fare, a una comunità invisibile non contrassegnata però da nessuna chiamata e men che meno da una ortodossia
da perseguire e proseguire e ‘fedelmente’ trasmettere.
La passione per il pensare, è, è stata, in Masullo una passione costantemente ritmata da un’assunzione di responsabilità del pensatore stesso, un pensatore che arrischia di pensare in proprio insieme a e oltre una certa tradizione, facendo sì, a questa maniera, che essa diventi a tutti gli effetti non una ripresa cacofonica di essa quanto piuttosto l’emergere di un’intensità di ‘tradimento’, che è la sola ‘ragione’ per rendere vitale una tradizione, l’unico motivo ripetibile da quelli che la proseguono perché se ne conservi il senso vitale.
Proprio per questo l’eredità masulliana – i suoi scritti, le sue lezioni, le conversazioni, private o pubbliche, con lui – non necessita di alcun testamento, se non quello inscritto nell’invito silenzioso a un pensare accanto, un pensare che lasciando essere i margini e i confini di ognuno nella prossimità a un magistero rende possibile l’incontro tra differenti singolarità e l’ascolto delle dissonanze che da un convenire di ogni singolarità con altre singolarità sempre scaturiscono.
“Ereditare” allora un pensiero, proprio perché nessuna vocazione autoriale è stata all’inizio della propria passione per il pensare se non quella stessa che ognuno e ognuna a un certo punto della propria esistenza ha deciso, seguendo una determina voce filosofica, che poteva-doveva essere la sua vocazione; farsi o sentirsi eredi di un pensiero può voler dire, e per me sicuramente è stato così, accogliere il suono e il senso di chi aveva già fatto in proprio il suo cammino pensoso, e trasportarlo e tradurlo altrove e altrimenti, in modo tale che il senso e il suono di chi e di ciò che (c’)era prima nell’altra voce, risuoni in altri e per altri, a formare nuovi abiti sensoriali e nuove maniere di convivenza intersoggettivi.
Potrei allora ripetere con Valéry che «Grand homme est celui qui laisse après soi les autres dans l’embarras», dove embarras, imbarazzo, non ha il significato limitato di avvertire l’inadeguatezza rispetto all’altezza da cui si è discesi, ma rimanda anche a una delicata mossa da maestro, giacché è indubitabile che un certo senso di inadeguatezza suscitato da quella modalità di porre in imbarazzo dia anche la misura giusta, offerta all’altro, della e per la propria collocazione (nel sapere, come nella vita). E dunque, imbarazzo, ha per me il senso, consono alla maestria di Masullo, di lasciare all’altro il suo spinoso turbamento di pensiero, perché solo da questo essere turbati e resi perplessi circa sé e ciò che ci circonda può scaturire l’esercizio di esitazione in cui consiste il pensare, o quella legge del pensare che uno degli autori di Masullo, cioè Hegel, condensava in questa frase: «il pensiero guasta la festa al torpore mentale e la sua inquietudine guasta l’inerzia».
Se così è, e di sicuro lo è e lo è stato per me, allora la maggiore eredità di Masullo è consistita proprio in quell’esser posti in imbarazzo dal suo ‘insegnamento’ pensoso, un’eredità imbarazzante che nessuno ‘allievo’ mai vorrebbe ereditare, non prevedendo essa beni da possedere e consumare, o riconoscimenti da esibire come insegne di appartenenza, ma solo gli oneri di una prova che coincidono con gli oneri della propria stessa esistenza.
Come scriveva Montaigne «il nostro grande e glorioso capolavoro [non consiste nel] comporre libri [ma nel] vivere come si deve», una saggezza questa che Masullo nella sua tonalità particolare ha ripreso dall’inizio alla fine del suo magistero, ripetendo, in una delle sue ultime interviste, che il vero progetto ‘filosofico’, la sola pensosità fruibile (di là da ogni stupido consumismo anche di idee) consiste nella costante comprensione di se stessi, una comprensione per niente astratta e cultuale e mai disciolta, pur nella sua anche solitaria comunità con sé, dalla vivace comprensione di altri in relazione con me e di me in relazione con altri, perché l’unica «condizione fondamentale», caratteristica della nostra humaine condition (Montaigne), è la convivenza.
Contro dunque tutti gli assolutismi, di pensiero e di stili di vita, la relazionalità, che contiene in sé come suo contrassegno la relatività del nostro essere, è l’unica espressione della nostra razionalità, il nostro vero marchio di genere, e a questo ‘lavoro’ di decomposizione degli assoluti – come voleva Masullo – occorre ‘subordinare’, senza alcuna venerazione, la propria vita singolare e convivente.

Felice Ciro Papparo
Ordinario di Filosofia Morale
Univ. degli Studi di Napoli “Federico II”

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