La conquista del sud e l’eterna favola dei “Mille” – di Luciano Salera

Recita la vulgata:

O Mille! In questi tempi di vergognose miserie – giova ricordarvi – l’anima si sente sollevata pensando a voi, rivolta a voi, quando stanca di contemplar ladri e putridume, pensando che non tutti perché la maggior parte di voi ha seminato l’ossa su tutti i campi di battaglia italiani [Non è vero, è un ulteriore e ricorrente falso – N.d.A., I Mille partiti da Quarto erano 1089; a Talamone ne sbarcano 61, a Marsala ne sbarcano 1028 compresa Rosa Montmasson, compagna di Francesco Crispi, vestita da uomo. Il totale dei morti fu 184, quindi, non sembra proprio che la maggior parte dei Mille abbia seminato le ossa], non tutti, ma bastanti ancora per rappresentare la gloriosa schiera, restate, avanzo superbo ed invidiato, pronto sempre a provare ai boriosi nostri detrattori che tutti non son traditori e codardi, non tutti spudorati sacerdoti del ventre in questa terra dominatrice e serva! [A puro titolo di cronaca è opportuno che si sappia, dagli atti parlamentari, parlamento italiano-Torino, 5 dicembre 1861, Garibaldi, a proposito dei suoi Mille, dichiara pubblicamente: “tutti generalmente di origine pessima, e per lo più ladra; e, tranne poche eccezioni, con radici genealogiche nel letamaio della violenza e del delitto” – ma questo tipo di cronaca nessuno lo riporta!]. Invano il Borbone, con numeroso naviglio stringeva in un cerchio di ferro la Trinacria gloriosa insofferente di giogo e solcava in tutti i sensi il Tirreno, per profondarvi nei suoi abissi. Invano! Vogate! Vogate pure argonauti della libertà, là sull’estremo orizzonte di Ostro splende un astro, che non vi lascerà smarrire la via, che vi condurrà per la mano al compimento della grande impresa; l’astro che scorgeva il grandissimo cantore di Beatrice, e che scorgevano i grandi che gli successero, nel più cupo delle tempeste: la Stella d’Italia! Quindi, a proposito dei vapori che hanno trasportato i Mille in Sicilia, giunge un angoscioso interrogativo: “… ove sono i piroscafi che vi presero a Villa Spinola e vi condussero […] sono forse essi i nuovi Argo, gelosamente conservati? Essi sono scomparsi. L’invidia e la dappocaggine di chi regge l’Italia hanno voluto distruggere quei testimoni delle loro vergogne… quindi, e questa è la ciliegina sulla torta, segue la definizione dei due vapori “scomparsi” “nobili veicoli d’una nobilissima banda….”.

Ed una quindicina di pagine dopo: “… eccola! L’isola dei portenti, la patria di Cerere, d’Archimede e dei Vespri, cioè dell’intelligenza e del valore. Archimede, prototipo dei favoriti dell’Onnipotente, trovava il globo da lui abitato cosa insignificante, paragonato all’infinito e chiedeva ad una leva, il manico d’una scopa, per smuovere questo domicilio d’insetti […]” [e, dopo un ulteriore certo numero di pagine, la vulgata, in preda al delirio, continua ad imperversare:] “I Mille, vestiti in borghese, degni rappresentanti d’una nazione oppressa, assaltavano col sangue freddo dei trecento di Sparta e di Roma, un nemico numeroso, di posizione in posizione e formidabile, ed i soldati della tirannide, brillanti di pistagne e spalline fuggivano davanti a loro!”.

Non crediate che la vulgata, la propaganda, sia inesauribile, ancora oggi: “A Melazzo i Mille furono perdenti sino verso sera avendo cominciato il combattimento all’alba, ed un ultimo sforzo fatto sul fianco sinistro del nemico decise la giornata[ma perché non dice la vulgata che la giornata fu decisa dall’intervento della pirofregata Veloce, consegnata al nemico dal suo comandante, il vile traditore Amilcare Anguissola, e ribattezzata Tukory che, da mare, cannoneggiò i soldati di Benevento del Bosco condizionando l’esito della battaglia?]

C’è un’immagine di Garibaldi molto eloquente: “…i suoi Mille provenivano dalla élite del nord. C’erano avvocati, medici, ingegneri, soprattutto bergamaschi e liguri…”. Così commenta Arrigo Petacco in un suo intervento pubblicato da Panorama del 2009.

Non basta, si parla sempre di volontari e questo è un altro falso. Il nome di “Mille” fu dato ad un certo numero di “Cacciatori delle Alpi” (il corpo paramilitare grazie al quale, Garibaldi fu gratificato del grado di Generale da Cavour esclusivamente per il comando di questa banda armata di mercenari tant’è che se è vero quello che scrive il Guerzoni ovvero che erano “miserabili in cerca di un pane” si arriva alla conclusione che in Lombardia, Veneto, Piemonte e Liguria – regioni che hanno dato il maggior numero di volontari, quasi 800 su poco più di mille – di pane se ne doveva avvertire una grossa necessità perché accorsero in tanti all’appello del “capo”! Il nome di “Mille” a questa accozzaglia di filibustieri fu, involontariamente, assegnato dal Comune di Palermo, qualche mese dopo lo sbarco, a seguito di un riconoscimento, una specie di diploma-attestato nominativo, rilasciato a ciascuno dei partecipanti all’allegra scampagnata. L’attestato palermitano recitava: “A voi, (nome e cognome) uno dei Mille prodi sbarcati con Garibaldi a Marsala…

Il bello fu che, a dimostrazione che gli italiani non sono cambiati mai, sono sempre squallidamente gli stessi, si verificò un buon numero di tentativi per fare includere nell’elenco dei “Mille” altre persone che, in realtà, non vi avevano mai fatto parte.

Si racconta, infatti, di un pastaio di Ortobello, tal Luciano Raveggi, che fece il diavolo a quattro pur di fare inserire nell’elenco ufficiale dei Mille almeno tre suoi amici che lavoravano con lui, in Toscana, nello stesso pastificio (almeno tre, ci pensate?). Inoltre, al fine di rendere più aderente al vero l’immagine dei “Mille Argonauti”, in retro copertina della Storia manipolata, è stato riportato il giudizio di Giacinto de’Sivo sui garibaldini:

L’esercito garibaldino

Lurido, bieco, famelico, disordinato,

male armato peggio vestito,

entra nella città.

A siffatti nuovissimi vincitori

S’aprono i castelli, le reggie,

gli arsenali, i porti e le casse.

La flotta, quella flotta

Che tanto era costata, si dava da’ suoi comandanti

Alla rivoluzione.

Ogni cosa è di questi,

usciti da tutte le parti del mondo,

ignoti l’uno all’altro,

calpestatori d’ogni diritto,

ignoranti di ogni legge.

Si spandono per le case,

pe’ paesi e per le ville;

sono padroni di tutto, derubatori di ogni arnese,

calpestatori di ogni monumento

insultatori d’ogni grandezza.

Napoli che i vandali non vide,

vide i Garibaldini.

Questo, a parte de’Sivo, è quanto, ancora oggi, diffonde a larghe mani la vulgata; la storia, quella vera, al contrario, ormai ammette: “L’invasione del Regno delle Due Sicilie e le tristi conseguenze che essa procurò ai popoli meridionali fu preparata nel tempo attraverso una duplice strategia a tenaglia che servì a predisporre ogni cosa per l’attuazione del progetto eversivo.

La Gran Bretagna vide nelle ambizioni del governo di Torino – utile idiota – lo strumento per attuare la sua politica di egemonia nel Mediterraneo e ciò costituì il punto di partenza dell’intera vicenda: sobillazione interna e intervento militare piemontese fiancheggiato dagli inglesi furono i due capisaldi su cui si costruì l’opera di annientamento della compagnia statuale delle Due Sicilie.

La realizzazione del piano destabilizzatore, dopo essere stata predefinita sulla carta, richiese in primo luogo la cospirazione intestina finalizzata alla corruzione delle classi dirigenti con promesse di bottino ai danni del popolo e della Chiesa. Alla base di tutto questo complesso obiettivo la diffusione dei circoli massonico-liberali fu senza dubbio un elemento propulsivo per fomentare la disgregazione dell’ordinamento dello Stato e tentare di creare malcontento nei diversi ceti sociali predisponendoli alla lotta armata quando ciò sarebbe parso opportuno”.

Nessuno dice, ad esempio, [ad eccezione di Nicola Tranfaglia] che lo sbarco di Garibaldi in Sicilia è un’incredibile anticipazione di quanto è avvenuto una ottantina di anni dopo – nell’estate del’43 – in occasione dello sbarco anglo-americano nel corso della seconda guerra mondiale.

Scrive, infatti, nell’introduzione: “…in Sicilia […] l’associazione mafiosa indicata, più tardi, come “Cosa Nostra”, che gli occupanti americani […] rivitalizzano a favore dei propri obiettivi […] svolge un ruolo centrale nell’occupazione angloamericana: gli Alleati se ne servono, infatti, nell’immediato dopo-sbarco, utilizzando mafiosi ed uomini vicino ad essa, come notabili locali, di cui hanno bisogno per mantenere l’ordine e per controllare adeguatamente la situazione di vuoto e confusione lasciata dal dissolto regime…”.

Ebbene, cosa succede con Garibaldi immediatamente dopo il suo sbarco? Da dove spuntano i picciotti che Garibaldi si trova ad avere a disposizione? E cosa succede, più o meno, quattro mesi dopo a Napoli grazie ai buoni auspici di Liborio Romano e dei vari Tore ‘e Criscienzo, Luigi Cozzolino detto “Persanaro”, Schiavetto, Michele ‘o chiazziere, la Santagiovannara, “Callicchio”, “Cozzolongo”, gentaglia delinquente chiamata a mantenere l’ordine quale novella polizia di stato?

L’ex Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a Marsala, nel suo discorso commemorativo ha citato tale Giuseppe La Sala, faccendiere dell’epoca e procuratore di mafiosi, che prima, durante e dopo lo sbarco di Garibaldi si attivò – al massimo delle sue possibilità, agendo in nome e per conto di Cavour (come Liborio Romano a Napoli) – per coinvolgere gli esponenti delle principali cosche mafiose siciliane affinché favorissero Garibaldi appena messo piede a terra.

Stesse identiche funzioni cui si dedicherà tra il 1942 ed il 1943 tale Salvatore Lucania (alias Lucky Luciano, esponente di spicco della mafia siculo-americana) fornendo una serie di preziosissime informazioni agli Alleati in vista dell’organizzazione del loro sbarco in Sicilia. La monarchia sabauda è stata ripagata con lo stesso prezzo: malavita per fare l’Italia, plebisciti fasulli per affermare la “volontà del popolo sovrano” e, successivamente, Cosa Nostra e Referendum truccato per il suo funerale: il costo è stato pagato a caro prezzo dagli italiani del Sud. Dunque i Savoia massacratori del Sud, traditori degli italiani.

Aveva ragione Sant’Alfonso Maria de Liguori che nel XVIII secolo profetizzò la rivoluzione francese e la successiva invasione di Napoli del 1799 con le sciagure che avrebbero recato alle rispettive nazioni, pur essendo deceduto un po’ di anni prima del verificarsi di entrambi gli avvenimenti. Ed a proposito, non si può dimenticare che si giunse persino all’arresto ed alla deportazione, tra infinite umiliazioni e patimenti, di due Pontefici, Pio VI, morto nell’esilio di Valenza, e Pio VII che poté fare ritorno a Roma solo dopo la sconfitta del Bonaparte.

San Luigi Maria Grignon de Montfort e i sacerdoti della sua congregazione religiosa, con la loro opera missionaria iniziatasi circa un secolo prima della rivoluzione francese, posero le basi della resistenza controrivoluzionaria in Vandea.

Aveva ragione San Giovanni Bosco, un altro grande pastore di anime, vissuto nel XIX secolo all’epoca dei misfatti risorgimentali, che profetizzò le sciagure che le inique leggi piemontesi avrebbero attirato sulla stessa dinastia sabauda.

Le profezie del sacerdote Giovanni Bosco (poi Santo) e le scomuniche di Pio IX? Certo. Così nel dicembre del 1854, Don Bosco sognò qualcosa di molto grave che l’indusse a scrivere a Vittorio Emanuele II per “metterlo al corrente che sulla Casa Regnante era sospesa la mano della morte”. Questo sogno ebbe luogo in un momento di particolare tensione nei rapporti tra Stato Pontificio e Regno Sardo.

Rattazzi aveva elaborato un disegno di legge che prevedeva, tra l’altro, lo scioglimento degli ordini religiosi contemplativi.

Il disegno di legge era destinato a passare sia alla Camera che al Senato e solo il Re, con un suo intervento, avrebbe potuto impedirne l’approvazione. L’opinione pubblica era divisa, non tutti erano d’accordo, anzi, nello stesso ambito della famiglia, la madre e la moglie di Vittorio Emanuele, erano contrarie a quella legge che avrebbe portato la soppressione di non si sa bene quante Case religiose.

Cinque giorni dopo il sogno si ripeté identico al precedente e Don Bosco scrive nuovamente al Re “supplicando Sua Maestà di impedire quella legge a qualunque costo”.

Il Re si guardò bene dal prendere alcun provvedimento al riguardo, i giorni passarono ed il 12 gennaio 1855 morì la Regina Madre, Maria Teresa, all’età di 54 anni. Nella giornata del 16 gennaio (giorno del solenne funerale di Maria Teresa) veniva portato il viatico alla moglie di Vittorio Emanuele, Maria Adelaide, che moriva, quattro giorni dopo, il 20 di gennaio, all’età di 33 anni.

L’11 febbraio, anch’esso all’età di 33 anni, moriva il principe Ferdinando di Savoia, duca di Genova, fratello del Re.

Il 29 maggio il Re firma la legge con la quale venivano soppresse 334 Case religiose che davano ospitalità a 5.456 membri. Appena dodici giorni prima, il 17 maggio, Vittorio Emanuele aveva ricevuto il “quarto avvertimento”: a soli quattro mesi di vita, andò a raggiungere sua madre l’ultimo figlio del Re: Vittorio Emanuele Leopoldo!

Insomma a Corte le giornate le passavano ad organizzare funerali.

Ma non è finita in quanto Don Bosco predisse ai Savoia – e lo mise per iscritto in una ulteriore lettera indirizzata al Re – che “… la famiglia di chi ruba a Dio è tribolata e non giunge alla quarta generazione…”.

Facciamo un po’ di calcoli: da Vittorio Emanuele II, passando per Umberto I, fino a Vittorio Emanuele III fuggito di notte e di nascosto come un ladro, ma portandosi dietro un’immensa refurtiva, erano passate tre generazioni. Il terzo successore, Umberto II, fu un re provvisorio, un re di maggio, un re che non è valso a nulla e che, anche lui, dovette fuggir via dall’Italia, destinazione Portogallo, appena perduto il referendum.

Chi di referendum ferisce, di referendum perisce!

Luciano Salera

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